Tre volte invano è la storia di un ragazzo che gioca a pallacanestro praticamente da quando è nato. Ma non è un fenomeno, anzi, il più delle volte le partite finiscono senza che lui abbia segnato un punto. Finché un giorno, e non un giorno qualsiasi, ma quello della finale, il ragazzo fa fuori mezza difesa avversaria con una finta sola e la butta dentro. E così l’azione dopo, e quella dopo ancora. L’ultimo tiro gli esce un po’ corto, resta in bilico sul ferro per un paio di secoli e alla fine entra, forse grazie alla rotazione terrestre.
Passano i mesi, gli anni, e il ragazzo è ormai un playmaker, ha un ruolo e uno scopo nella vita. Certe volte, in campo, ha persino la sensazione di trasformarsi in qualcun altro. Uno capace di fare cose incredibili con un pallone in mano, di passare invisibile tra gli avversari per andare a gonfiare la retina. E probabilmente continuerebbe così per tutta la vita, se a due minuti e diciassette secondi dalla sirena di un’altra finale non franasse per terra rompendosi un ginocchio.
Da lì in avanti, per lui, è come se attorno al campo di basket crescesse una barriera sempre più alta. Ora, per il ragazzo, la sfida è superare quella barriera. A costo di andare sotto i ferri una volta, due volte, tre volte, ma non è detto che ci riesca. Certo, nella vita ci sono altre cose oltre il basket. Una donna che ti ama, un lavoro dignitoso… ma il basket, lo ha detto anche un grande scrittore come Philip Roth, “il basket è un’altra cosa”.